domingo, 22 de julho de 2012

MAUDE




 “SEXUS”, di Henry Miller
  
È curioso che un corpo, per quanto familiare possa essere alla vista e al tatto, diventa eloquentemente misterioso non appena sentiamo che chi ne è il proprietario è divenuto elusivo o evasivo. Ricordo il rinnovato zelo con il quale esplorai il corpo di Maude dopo aver saputo che ella si era recata dal medico per un esame vaginale. A rendere piccante la situazione fu il fatto che il dottore era stato in passato uno dei suoi spasimanti, uno degli spasimanti ai quali non aveva mai accennato. Inaspettatamente, un giorno, Maude annunciò di essersi recata nel suo studio; un giorno era caduta, anche se non me ne aveva mai parlato, e, avendo incontrato di recente il suo ex corteggiatore, del quale sapeva di potersi fidare (!), si era decisa a farsi visitare.
«Lo hai incontrato e gli hai chiesto, così, a bruciapelo, di visitarti?»
«No, non è stato così.» Non poté fare a meno di ridere.
«Be', che cosa è accaduto esattamente?» Ero curioso di sapere se egli l'avesse trovata più bella o no dopo l'intervallo dei cinque o sei anni trascorsi. Non le aveva fatto alcuna proposta? Era ammogliato, certo, questo lo avevo già saputo da Maude. Ma era anche estremamente bello, aveva una personalità magnetica; lei si era data la pena di farmelo sapere.
«Be', che cosa hai provato stendendoti sul lettino e allargando le gambe... davanti al tuo ex corteggiatore?» Cercò di farmi capire che era diventata assolutamente frigida, che il dottor Hilary, o come diavolo si chiamava, l'aveva esortata a rilassarsi, ricordandole di essere un medico, e così via e così via.
«Sei riuscita a rilassarti... alla fine?» Rise di nuovo, una di quelle risate provocanti alle quali si abbandonava sempre quando doveva parlare di cose «vergognose».
«Ebbene, che cosa ha fatto?» insistetti.
«Oh, non un gran che, a dire il vero. Si è limitato a esplorare la vagina» (non avrebbe mai detto la mia vagina!) «con il dito. Aveva un guanto di gomma, naturalmente.» Aggiunse questo particolare come per esonerarsi da ogni sospetto che la cosa potesse essere andata al di là di un esame puramente clinico.
«Secondo lui mi sono mirabilmente riempita», disse spontaneamente, non senza stupirmi.
«Ah sì, eh? Ti ha visitata a fondo, allora?» Il ricordo di questo episodio insignificante era stato evocato da un'osservazione che Maude aveva appena fatto. Si stava crucciando a causa del solito dolore ricomparso di recente. Tornò a descrivermi la caduta di alcuni anni prima, quando aveva creduto, a torto, di essersi ferita alla pelvi. Parlava così seriamente che quando mi prese la mano e se la mise sulla potta, proprio sul rilievo del monte di Venere, il gesto mi parve del tutto innocente. Aveva là folti peli, un vero e proprio cespuglio di rose, che, quando le dita si avvicinavano fino a sfiorarli, immediatamente si drizzavano, rigidi come una spazzola. Era uno di quei velli che ti fanno impazzire quando li tocchi attraverso un velo di seta o di velluto. Spesso, nei primi tempi, quando indossava vestiti leggeri e graziosi, quando si comportava con seducente civetteria, avevo l'abitudine di afferrarle i peli del pube e di tenerli mentre ci trovavamo in qualche luogo pubblico, l'atrio di un teatro, o una stazione della sopraelevata. E lei si infuriava. Ma, standole vicino, impedendo che qualcuno potesse scorgermi la mano brancolante, continuavo a stringerli tra le dita e dicevo: «Nessuno può vedere quello che faccio. Non muoverti!» E continuavo a parlarle, con la mano affondata nel vello, e lei ipnotizzata dalla paura. In teatro, non appena le luci si attenuavano, allargava invariabilmente le gambe e lasciava che mi trastullassi; era una cosa da nulla per lei, allora, sbottonarmi i calzoni e gingillarsi con il mio pene per tutto lo spettacolo.
La vulva di lei continuava ad eccitarmi. Me ne resi conto adesso, mentre le tenevo la mano, caldamente, sull'orlo dello spesso vello. Ella continuava a parlare ininterrottamente, per rimandare l'imbarazzante momento di silenzio in cui non vi sarebbe stato altro che la pressione della mia mano e la tacita ammissione di lei del desiderio che restasse là.
Quasi fossi vitalmente interessato a quanto mi stava dicendo, le ricordai a un tratto il patrigno che aveva perduto. Come avevo previsto, Maude subito fremette a quell'accenno. Eccitata dal fatto stesso che avessi pronunciato quel nome, mise la mano sulla mia e premette affettuosamente. Che la mia mano fosse scivolata un poco più in giù, che le dita fossero rimaste impigliate nei folti peli, tutto questo parve non importarle affatto per il momento. Continuò a parlare di lui in modo zampillante, proprio come una scolaretta. Mentre con le dita intrecciavo e scioglievo, sentii una duplice passione agitarsi in me. Gli anni passati, le prime volte che andavo a trovarla, ero violentemente geloso di questo patrigno. Ella aveva allora ventidue o ventitré anni, e un corpo pienamente sbocciato, maturo in tutte le accezioni del termine; vederla seduta in grembo al patrigno davanti alla finestra, al crepuscolo, intenta a parlargli con una voce bassa e carezzevole, mi infuriava. «Lo amo», diceva, come se questo avesse potuto giustificare il suo comportamento, in quanto per lei la parola amore significava sempre qualcosa di puro, qualcosa di nettamente distinto dai piaceri carnali. Queste cose accadevano in estate, ed io, mentre aspettavo soltanto che il vecchio inetto la lasciasse, ero anche troppo conscio della carne calda e nuda sotto il vestito sottile, simile a garza, che indossava. Era, sembrava a me, come se si fosse messa a sedere nuda tra le sue braccia. Avevo continuamente la consapevolezza del peso di Maude tra le sue braccia, del modo con cui si assestava su di lui, le cosce increspate, la fessa generosa ancorata saldamente sull'abbottonatura dei suoi calzoni. Ero certo che, per quanto puro potesse essere l'affetto del vecchio per Maude, egli dovesse essere conscio del frutto succulento che aveva in grembo. Soltanto un cadavere sarebbe potuto essere impervio alla linfa e al calore generati da quel caldo corpo. Inoltre, quanto meglio la conoscevo, tanto più mi sembrava naturale da parte sua offrire il proprio corpo in quel modo furtivo e libidinoso. Una relazione incestuosa non era al di là dei suoi pensieri; se doveva essere «violata», avrebbe preferito esserlo dal padre che amava; il fatto che egli non fosse il suo vero padre, ma quello da lei prescelto, semplificava la situazione, se invero ella consentiva a se stessa di pensare apertamente a queste cose. Era stata quella maledetta, pervertita relazione a rendermi così difficile, allora, di indurla a un chiaro, aperto rapporto sessuale. Maude si aspettava da me un amore che io ero incapace di darle; voleva che l'accarezzassi come una bambina, che le bisbigliassi all'orecchio dolci sciocchezze, che la coccolassi, la viziassi, la divertissi. Voleva che l'abbracciassi e l'accarezzassi in qualche modo assurdo e incestuoso. Non voleva ammettere che lei aveva una potta e io un bischero. Voleva parole d'amore e pressioni silenziose e furtive, esplorazioni con le mani. Io ero troppo immediato, troppo brutale per i suoi gusti.
Dopo aver gustato la cosa reale, parve quasi fuori di sé... per la passione, l'ira, la vergogna, l'umiliazione e non so che altro. Evidentemente non aveva mai sospettato che l'amore fosse così piacevole, e così disgustoso. A essere disgustoso, per lei, era l'abbandono. Pensare che tra le gambe di un uomo pendeva qualcosa capace di farle dimenticare completamente se stessa la esasperava. Ci teneva tanto a essere indipendente... quando non si comportava come una bimbetta. Non voleva il campo intermedio, la resa, la fusione, lo scambio. Voleva conservare quel piccolo, chiuso centro di se stessa nascosto nel petto, e consentirsi soltanto il piacere legittimo di arrendersi con il corpo. Che il corpo e l'anima non potessero essere separati, specie nell'atto sessuale, era per lei causa dell'irritazione più profonda. Si comportava sempre come se, abbandonando la propria vagina all'esplorazione del pene, perdesse qualcosa, qualche piccola particella del suo io insondabile, qualche elemento che non sarebbe mai potuto essere sostituito. Quanto più si batteva contro di esso, tanto più completo era il suo abbandono. Nessuna donna sa fottere selvaggiamente quanto l'isterica che ha reso frigida la propria mente.
Trastullandomi ora con i rigidi, ispidi peli di quel suo vello, lasciando vagare occasionalmente un dito fino all'estremità della vulva, consentii ai miei pensieri di addentrarsi in profondità nel passato. Provavo quasi la sensazione di essere il padre da lei prescelto e di divertirmi con questa lasciva figliola nella luce crepuscolare e ipnotica di una stanza surriscaldata. Tutto era falso e profondo e reale al contempo. Se avessi dovuto agire come lei desiderava, recitare la parte dell'amante tenero e comprensivo, non vi sarebbero stati dubbi per quanto concerneva la ricompensa. Ella mi avrebbe divorato in una resa appassionata. Bastava mantenere la finzione e Maude avrebbe allargato quelle sue cosce con vulcanico ardore.
«Lasciami vedere se duole dentro», bisbigliai, ritirando la mano e insinuandola con destrezza sotto il velo trasparente e su per la potta di lei. I succhi stavano fluendo; ella divaricò ulteriormente le gambe, reagendo alla minima pressione della mia mano.
«Qui... ti duole qui?» domandai, affondandole dentro in profondità.
Aveva gli occhi socchiusi. Mi fece un cenno incerto che non significava né sì né no. Le infilai altre due dita nella vagina e silenziosamente mi distesi accanto a lei; le misi un braccio sotto il capo e dolcemente l'attrassi a me, sempre rimestando abilmente con le dita i succhi che continuavano a colare.
Giaceva immobile, completamente passiva, la mente completamente assorta nel gioco delle mie dita. Le presi la mano e l'appoggiai contro l'abbottonatura dei calzoni, che magicamente si sbottonò. Maude mi afferrò la verga fermamente e dolcemente, accarezzandola con un tocco esperto. Le scoccai un'occhiata furtiva e vidi sulle sue fattezze un'espressione quasi di beatitudine. Questo le piaceva, questo cieco, tattile scambio di sensazioni. Se soltanto avesse potuto addormentarsi sul serio, adesso, e lasciarsi fottere, fingere di non avere alcuna parte vigile e desta nella cosa... concedersi semplicemente, eppure essere innocente... quale beatitudine sarebbe stata! Le piaceva fottere con la potta interiore, giacendo assolutamente immobile, come in stato di trance. Con semafori eretti, distesi, giubilanti, guizzando, solleticando, succhiando, avvinghiandosi, avrebbe potuto fottere fino al soddisfacimento completo, fottere finché anche l'ultima goccia di succo non si fosse esaurita.
Era imperativo adesso non fare una mossa falsa, non perforare il velo sottile, che ella stava ancora filando, come un baco da seta, intorno al proprio io nudo e carnale. Attuare il trasferimento da dito a verga richiedeva la destrezza di un ipnotizzatore. Il piacere mortale doveva essere intensificato con la massima gradualità, come se si fosse trattato di un veleno al quale l'organismo poteva assuefarsi soltanto a poco a poco. Bisognava fotterla attraverso il velo del bozzolo, così come, anni prima, avevo dovuto violentarla attraverso la camicia da notte, per poterla possedere... Un pensiero demoniaco mi balenò nella mente mentre la mia verga guizzava con voluttà sotto le abili carezze di lei. Pensai a Maude seduta in grembo al patrigno, nel crepuscolo, con la fessa incollata all'abbottonatura dei suoi calzoni, come sempre; mi domandai quale sarebbe stata l'espressione del viso di Maude se, improvvisamente avesse sentito la lucciola di lui penetrarle nella potta sognante; se, mentre ella andava mormorandogli all'orecchio perverse litanie di amore adolescente, ignara del fatto che il vestito simile a garza non le copriva più le natiche carnose, quell'aggeggio innominabile nascosto tra le gambe dell'uomo si fosse improvvisamente drizzato salendo dentro di lei ed esplodendo come una pistola ad acqua.
La guardai per vedere se potesse leggere nei miei pensieri, esplorandole intanto le pieghe e le crepe della fessa infiammata con palpi audaci e aggressivi. Teneva gli occhi strettamente chiusi, aveva le labbra semiaperte in modo lascivo; la parte inferiore del suo corpo cominciò a dimenarsi e a contorcersi, quasi stesse cercando di liberarsi da una rete. Con dolcezza le staccai la mano dalla verga, sollevandole al contempo con cautela una gamba e passandola sopra di me. Per qualche momento lasciai che il fallo saltasse e fremesse all'imboccatura della fessa, lasciai che scivolasse dall'avanti all'indietro, e viceversa, quasi si fosse trattato di un flessibile giocattolo di gomma. Un ritornello idiota andava ripetendosi nella mia mente: «Com'è questo che tengo sulla tua testa... bello o super-bello?» Continuai il giochetto per un intervallo di tempo provocante, di quando in quando infilando il glande del pene per un paio di centimetri, poi facendolo scorrere contro l'estremità della vulva e lasciando che si annidasse nel vello rugiadoso. Tutto a un tratto ella ebbe un ansito e, con gli occhi spalancati, si girò completamente su di me; equilibrata sulle mani e le ginocchia, si sforzò freneticamente di afferrarmi la verga con la propria viscida trappola. Le misi entrambe le mani intorno alle natiche, eseguii con le dita un «glissando» lungo il margine interno della gonfia vulva e, aprendola come si farebbe con una palla di gomma lacerata, piazzai la verga nel punto vulnerabile e aspettai che ella vi premesse su con il proprio peso. Per un momento credetti che avesse improvvisamente cambiato idea. Il capo di lei, che fino a quel momento aveva ciondolato mollemente, mentre gli occhi seguivano impotenti i movimenti frenetici della potta, si sollevò ora rigidamente, e il suo sguardo si portò a un tratto su un punto sopra il mio capo. Un'espressione di estremo piacere egoistico colmò quegli occhi spalancati e vaganti, e, mentre ella cominciava a far ruotare il sedere, con l'asta penetrata soltanto a mezzo, prese a mordersi il labbro inferiore. Mi spostai allora un pochino più in basso, poi, premendola giù con tutta la mia forza, glielo cacciai dentro fino all'elsa, tanto in profondità che lei si lasciò sfuggire un gemito e il capo le ricadde in avanti sul guanciale. Proprio in questo momento, quando avrei potuto prendere una carota e infilargliela, perché tanto sarebbe stato lo stesso, udimmo bussare forte alla porta; ci spaventammo a tal punto tutti e due che per poco non ci si fermò il cuore. Come sempre, fu lei a riprendersi per prima. Strappandosi da me, corse alla porta.
«Chi è?» domandò.
«Sono io», giunse la voce timida, tremula, che riconobbi immediatamente.
«Oh, sei tu! Perché non lo hai detto subito? Che cosa c'è?»
«Volevo soltanto sapere», continuò la voce fioca e strascicata, con una lentezza esasperante, «se Henry è lì.»
«Sì, certo che è qui», scattò Maude, riavendosi dallo spavento. «Oh, Melanie», soggiunse, come se quest'ultima la stesse torturando, «non volevi sapere altro? Non avresti potuto...?»
«C'è una telefonata per Henry», disse l'anziana, povera Melanie. E poi, ancora più adagio, come se quello fosse l'ultimo sforzo che riusciva a compiere: «Credo... che sia... importante».
«Va bene», gridai, alzandomi dal divano e abbottonandomi i calzoni. «Vengo subito!»
Fu un colpo per me quando accostai il ricevitore all'orecchio. Era Curley che telefonava dal palazzo degli scarafaggi. Non poteva spiegarmi che cos'era accaduto, disse, ma dovevo tornare a casa al più presto possibile.
«Non parlare in questo modo», lo esortai, «dimmi la verità. Che cosa è successo? Si tratta di Mona?»
«Sì», fece lui, «ma tra poco si riprenderà.»
«Non è morta, allora?»
«No, ma ci è mancato poco. Sbrigati...» e, ciò detto, riattaccò.
Nel corridoio mi imbattei in Melanie che, il seno scoperto a mezzo, zoppicava con malinconica soddisfazione. Mi scoccò un'occhiata comprensiva, di compatimento, di invidia e di rimprovero insieme.
«Non l'avrei disturbata, sa», la sua voce strascicata parve salire a fatica fino a me, «se non fosse stato importante. Santo cielo», e incominciò a trascinare il proprio corpo verso le scale, «c'è tanto da fare. Quando si è giovani...» Non aspettai che concludesse la frase. Corsi giù e finii quasi tra le braccia di Maude.
«Che cosa c'è?» mi domandò ansiosa. Poi, siccome non rispondevo immediatamente, soggiunse: «È accaduto qualcosa... a... a lei?»
«Niente di grave, spero», dissi io, mentre annaspavo per prendere il cappotto e il cappello.
«Devi andartene subito? Voglio dire...» V'era qualcosa di più dell'ansia nella voce di Maude; un accenno di delusione, una punta appena percettibile di disapprovazione.
«Non ho acceso la luce», continuò, andando verso la lampada come per fare scattare l'interruttore, «perché temevo che Melanie sarebbe potuta scendere con te.» Si gingillò un poco con l'accappatoio, come per ricondurre i miei pensieri alla cosa che le campeggiava nella mente.
A un tratto mi resi conto che era crudele scappar via senza qualche manifestazione di tenerezza.
«Devo proprio scappare», dissi, posando cappello e cappotto e portandomi rapido al suo fianco. «Mi dispiace lasciarti proprio adesso... così», e, presale la mano che stava per accendere la lampada, la trassi a me e l'abbracciai. Non oppose alcuna resistenza. Anzi, reclinò il capo all'indietro e mi offrì le labbra. Dopo un attimo avevo la lingua nella bocca di lei e il suo corpo, infiacchito e caldo, stava premendo convulsamente contro il mio. («Sbrigati, sbrigati!») ricordai le parole di Curley. «Farò alla svelta», dissi a me stesso, senza preoccuparmi, adesso, se le mie mosse sarebbero state avventate o no. Insinuai la mano sotto l'accappatoio e le affondai le dita nella fessa. Con mio stupore ella cercò l'abbottonatura dei calzoni, l'aprì, ed estrasse la verga. La feci indietreggiare contro il muro e lasciai che ponesse il mio bischero contro la propria potta. Ardeva tutta, adesso, era conscia di ogni mio movimento, deliberato e imperioso. Mi maneggiava il fallo come se fosse stato sua proprietà privata.
Non era facile cercare di metterglielo stando in piedi. «Sdraiamoci qui», bisbigliò lei, cadendo in ginocchio e trascinando giù anche me.
«Ti buscherai un raffreddore», dissi, mentre febbrilmente cercava di liberarsi dell'accappatoio.
«Non me ne importa», rispose, abbassandomi i calzoni e tirandomi con noncuranza su di sé. «Oh, Dio», gemette, mordicchiandosi di nuovo le labbra e spremendomi i testicoli mentre adagio inserivo l'asta. «Oh, Dio, dammelo... mettilo fino in fondo!» e ansimò e gemette di piacere.
Non volendo saltar su immediatamente e afferrare cappotto e cappello, le rimasi addosso, con il bischero sempre in lei rigido come uno scovolo. Ella sembrava un frutto maturo, dentro, e si sarebbe detto che la polpa respirasse. Ben presto, sentii le due bandierine fluttuare; sembravano un fiore che oscillasse e la carezza dei petali era allettante. Si muovevano incontrollabilmente, non a sussulti violenti e convulsi, ma come bandierine di seta che reagissero a una brezza. E poi fu come se, a un tratto, ella fosse riuscita a riprendere il controllo; con le pareti della vagina iniziò all'interno una soffice spremitura di limone, succhiando e stringendo a volontà, quasi che là dentro fosse cresciuta una mano invisibile.
Giacendo assolutamente immobile, mi arresi a queste abili manipolazioni. («Sbrigati, sbrigati!» Ma ricordai anche con molta chiarezza, adesso, di avergli sentito dire che Mona non era morta.) Avrei sempre potuto chiamare un tassì; pochi minuti in più o in meno non avrebbero rivestito importanza. Nessuno poteva mai immaginare che avessi tardato per questo.
(Afferra il piacere finché dura... Afferra il piacere...) Maude sapeva ormai che non me ne sarei andato subito. Sapeva che avrebbe potuto protrarre la cosa quanto le fosse piaciuto, specie giacendo immobile in quel modo, fottendo soltanto con l'interno della vagina, fottendo con noncuranza.
Applicai la bocca sulla sua e cominciai a fottere con la lingua. Maude sapeva fare le cose più stupefacenti con la lingua, cose che avevo dimenticato sapesse. A volte me la infilava in gola, come per farmela inghiottire, poi la ritirava provocante, per concentrarsi sulle sensazioni più in basso. A un certo momento estrassi completamente la verga, per farle respirare una boccata d'aria, ma lei l'afferrò avidamente e tornò a infilarla, spingendosi in avanti, in modo che toccasse il fondo. La ritirai, poi, proprio sull'estremità della sua vulva, e, come un cane dal naso umido, la fiutai con la punta del batacchio. Questo giochetto fu troppo per lei; cominciò a venire, un orgasmo lungo, protratto, che esplose morbidamente come una stella a cinque punte. Mi controllavo con un tal sangue freddo che, mentre lei passava per i suoi spasmi, glielo manovrai dentro come un demone, in su, di lato, giù, dentro, fuori di nuovo, affondando, indietreggiando, calcando, sbuffando, e assolutamente certo che non sarei venuto fino a quando non fossi stato perfettamente a punto e pronto, accidenti.
E a questo punto ella fece qualcosa che non aveva mai fatto. Muovendosi con furioso abbandono, mordendomi le labbra, la gola, le orecchie, ripetendo come un automa impazzito: «Continua, dammelo, continua, dammelo, continua, oh Dio, dammelo, dammelo!» passò da un orgasmo all'altro, spingendo, calcando, sollevandosi, facendo ruotare il didietro, alzando le gambe e avvolgendomele intorno al collo, gemendo, grugnendo, strillando come un porco, e poi a un tratto, completamente spossata, supplicandomi di finire, supplicandomi di venire. «Vieni, vieni... o impazzirò.» Mentre giaceva lì come un sacco d'avena, ansimando, sudando, totalmente indifesa, totalmente esausta, adagio e con deliberazione continuai a manovrare l'asta avanti e indietro, e quando mi fui goduto il lombo tritato, la purea di patate, il sugo e tutte le spezie, le iniettai sull'imboccatura dell'utero una dose che la fece sussultare come una scarica elettrica.

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