“SEXUS”,
di Henry Miller
È
curioso che un corpo, per quanto familiare possa essere alla vista e al tatto,
diventa eloquentemente misterioso non appena sentiamo che chi ne è il
proprietario è divenuto elusivo o evasivo. Ricordo il rinnovato zelo con il
quale esplorai il corpo di Maude dopo aver saputo che ella si era recata dal
medico per un esame vaginale. A rendere piccante la situazione fu il fatto che
il dottore era stato in passato uno dei suoi spasimanti, uno degli spasimanti ai
quali non aveva mai accennato. Inaspettatamente, un giorno, Maude annunciò di
essersi recata nel suo studio; un giorno era caduta, anche se non me ne aveva
mai parlato, e, avendo incontrato di recente il suo ex corteggiatore, del quale
sapeva di potersi fidare (!), si era decisa a farsi visitare.
«Lo
hai incontrato e gli hai chiesto, così, a bruciapelo, di visitarti?»
«No,
non è stato così.» Non poté fare a meno di ridere.
«Be',
che cosa è accaduto esattamente?» Ero curioso di sapere se egli l'avesse trovata
più bella o no dopo l'intervallo dei cinque o sei anni trascorsi. Non le aveva
fatto alcuna proposta? Era ammogliato, certo, questo lo avevo già saputo da
Maude. Ma era anche estremamente bello, aveva una personalità magnetica; lei si
era data la pena di farmelo sapere.
«Be',
che cosa hai provato stendendoti sul lettino e allargando le gambe... davanti al
tuo ex corteggiatore?» Cercò di farmi capire che era diventata assolutamente
frigida, che il dottor Hilary, o come diavolo si chiamava, l'aveva esortata a
rilassarsi, ricordandole di essere un medico, e così via e così via.
«Sei
riuscita a rilassarti... alla fine?» Rise di nuovo, una di quelle risate
provocanti alle quali si abbandonava sempre quando doveva parlare di cose
«vergognose».
«Ebbene, che cosa ha fatto?» insistetti.
«Oh,
non un gran che, a dire il vero. Si è limitato a esplorare la vagina» (non
avrebbe mai detto la mia vagina!) «con il dito. Aveva un guanto di gomma,
naturalmente.» Aggiunse questo particolare come per esonerarsi da ogni sospetto
che la cosa potesse essere andata al di là di un esame puramente clinico.
«Secondo lui mi sono mirabilmente riempita», disse spontaneamente, non senza
stupirmi.
«Ah
sì, eh? Ti ha visitata a fondo, allora?» Il ricordo di questo episodio
insignificante era stato evocato da un'osservazione che Maude aveva appena
fatto. Si stava crucciando a causa del solito dolore ricomparso di recente.
Tornò a descrivermi la caduta di alcuni anni prima, quando aveva creduto, a
torto, di essersi ferita alla pelvi. Parlava così seriamente che quando mi prese
la mano e se la mise sulla potta, proprio sul rilievo del monte di Venere, il
gesto mi parve del tutto innocente. Aveva là folti peli, un vero e proprio
cespuglio di rose, che, quando le dita si avvicinavano fino a sfiorarli,
immediatamente si drizzavano, rigidi come una spazzola. Era uno di quei velli
che ti fanno impazzire quando li tocchi attraverso un velo di seta o di velluto.
Spesso, nei primi tempi, quando indossava vestiti leggeri e graziosi, quando si
comportava con seducente civetteria, avevo l'abitudine di afferrarle i peli del
pube e di tenerli mentre ci trovavamo in qualche luogo pubblico, l'atrio di un
teatro, o una stazione della sopraelevata. E lei si infuriava. Ma, standole
vicino, impedendo che qualcuno potesse scorgermi la mano brancolante, continuavo
a stringerli tra le dita e dicevo: «Nessuno può vedere quello che faccio. Non
muoverti!» E continuavo a parlarle, con la mano affondata nel vello, e lei
ipnotizzata dalla paura. In teatro, non appena le luci si attenuavano, allargava
invariabilmente le gambe e lasciava che mi trastullassi; era una cosa da nulla
per lei, allora, sbottonarmi i calzoni e gingillarsi con il mio pene per tutto
lo spettacolo.
La
vulva di lei continuava ad eccitarmi. Me ne resi conto adesso, mentre le tenevo
la mano, caldamente, sull'orlo dello spesso vello. Ella continuava a parlare
ininterrottamente, per rimandare l'imbarazzante momento di silenzio in cui non
vi sarebbe stato altro che la pressione della mia mano e la tacita ammissione di
lei del desiderio che restasse là.
Quasi fossi vitalmente interessato a quanto mi stava dicendo, le ricordai a un
tratto il patrigno che aveva perduto. Come avevo previsto, Maude subito fremette
a quell'accenno. Eccitata dal fatto stesso che avessi pronunciato quel nome,
mise la mano sulla mia e premette affettuosamente. Che la mia mano fosse
scivolata un poco più in giù, che le dita fossero rimaste impigliate nei folti
peli, tutto questo parve non importarle affatto per il momento. Continuò a
parlare di lui in modo zampillante, proprio come una scolaretta. Mentre con le
dita intrecciavo e scioglievo, sentii una duplice passione agitarsi in me. Gli
anni passati, le prime volte che andavo a trovarla, ero violentemente geloso di
questo patrigno. Ella aveva allora ventidue o ventitré anni, e un corpo
pienamente sbocciato, maturo in tutte le accezioni del termine; vederla seduta
in grembo al patrigno davanti alla finestra, al crepuscolo, intenta a parlargli
con una voce bassa e carezzevole, mi infuriava. «Lo amo», diceva, come se questo
avesse potuto giustificare il suo comportamento, in quanto per lei la parola
amore significava sempre qualcosa di puro, qualcosa di nettamente distinto dai
piaceri carnali. Queste cose accadevano in estate, ed io, mentre aspettavo
soltanto che il vecchio inetto la lasciasse, ero anche troppo conscio della
carne calda e nuda sotto il vestito sottile, simile a garza, che indossava. Era,
sembrava a me, come se si fosse messa a sedere nuda tra le sue braccia. Avevo
continuamente la consapevolezza del peso di Maude tra le sue braccia, del modo
con cui si assestava su di lui, le cosce increspate, la fessa generosa ancorata
saldamente sull'abbottonatura dei suoi calzoni. Ero certo che, per quanto puro
potesse essere l'affetto del vecchio per Maude, egli dovesse essere conscio del
frutto succulento che aveva in grembo. Soltanto un cadavere sarebbe potuto
essere impervio alla linfa e al calore generati da quel caldo corpo. Inoltre,
quanto meglio la conoscevo, tanto più mi sembrava naturale da parte sua offrire
il proprio corpo in quel modo furtivo e libidinoso. Una relazione incestuosa non
era al di là dei suoi pensieri; se doveva essere «violata», avrebbe preferito
esserlo dal padre che amava; il fatto che egli non fosse il suo vero padre, ma
quello da lei prescelto, semplificava la situazione, se invero ella consentiva a
se stessa di pensare apertamente a queste cose. Era stata quella maledetta,
pervertita relazione a rendermi così difficile, allora, di indurla a un chiaro,
aperto rapporto sessuale. Maude si aspettava da me un amore che io ero incapace
di darle; voleva che l'accarezzassi come una bambina, che le bisbigliassi
all'orecchio dolci sciocchezze, che la coccolassi, la viziassi, la divertissi.
Voleva che l'abbracciassi e l'accarezzassi in qualche modo assurdo e incestuoso.
Non voleva ammettere che lei aveva una potta e io un bischero. Voleva parole
d'amore e pressioni silenziose e furtive, esplorazioni con le mani. Io ero
troppo immediato, troppo brutale per i suoi gusti.
Dopo
aver gustato la cosa reale, parve quasi fuori di sé... per la passione, l'ira,
la vergogna, l'umiliazione e non so che altro. Evidentemente non aveva mai
sospettato che l'amore fosse così piacevole, e così disgustoso. A essere
disgustoso, per lei, era l'abbandono. Pensare che tra le gambe di un uomo
pendeva qualcosa capace di farle dimenticare completamente se stessa la
esasperava. Ci teneva tanto a essere indipendente... quando non si comportava
come una bimbetta. Non voleva il campo intermedio, la resa, la fusione, lo
scambio. Voleva conservare quel piccolo, chiuso centro di se stessa nascosto nel
petto, e consentirsi soltanto il piacere legittimo di arrendersi con il corpo.
Che il corpo e l'anima non potessero essere separati, specie nell'atto sessuale,
era per lei causa dell'irritazione più profonda. Si comportava sempre come se,
abbandonando la propria vagina all'esplorazione del pene, perdesse qualcosa,
qualche piccola particella del suo io insondabile, qualche elemento che non
sarebbe mai potuto essere sostituito. Quanto più si batteva contro di esso,
tanto più completo era il suo abbandono. Nessuna donna sa fottere selvaggiamente
quanto l'isterica che ha reso frigida la propria mente.
Trastullandomi ora con i rigidi, ispidi peli di quel suo vello, lasciando vagare
occasionalmente un dito fino all'estremità della vulva, consentii ai miei
pensieri di addentrarsi in profondità nel passato. Provavo quasi la sensazione
di essere il padre da lei prescelto e di divertirmi con questa lasciva figliola
nella luce crepuscolare e ipnotica di una stanza surriscaldata. Tutto era falso
e profondo e reale al contempo. Se avessi dovuto agire come lei desiderava,
recitare la parte dell'amante tenero e comprensivo, non vi sarebbero stati dubbi
per quanto concerneva la ricompensa. Ella mi avrebbe divorato in una resa
appassionata. Bastava mantenere la finzione e Maude avrebbe allargato quelle sue
cosce con vulcanico ardore.
«Lasciami vedere se duole dentro», bisbigliai, ritirando la mano e insinuandola
con destrezza sotto il velo trasparente e su per la potta di lei. I succhi
stavano fluendo; ella divaricò ulteriormente le gambe, reagendo alla minima
pressione della mia mano.
«Qui... ti duole qui?» domandai, affondandole dentro in profondità.
Aveva gli occhi socchiusi. Mi fece un cenno incerto che non significava né sì né
no. Le infilai altre due dita nella vagina e silenziosamente mi distesi accanto
a lei; le misi un braccio sotto il capo e dolcemente l'attrassi a me, sempre
rimestando abilmente con le dita i succhi che continuavano a colare.
Giaceva immobile, completamente passiva, la mente completamente assorta nel
gioco delle mie dita. Le presi la mano e l'appoggiai contro l'abbottonatura dei
calzoni, che magicamente si sbottonò. Maude mi afferrò la verga fermamente e
dolcemente, accarezzandola con un tocco esperto. Le scoccai un'occhiata furtiva
e vidi sulle sue fattezze un'espressione quasi di beatitudine. Questo le
piaceva, questo cieco, tattile scambio di sensazioni. Se soltanto avesse potuto
addormentarsi sul serio, adesso, e lasciarsi fottere, fingere di non avere
alcuna parte vigile e desta nella cosa... concedersi semplicemente, eppure
essere innocente... quale beatitudine sarebbe stata! Le piaceva fottere con la
potta interiore, giacendo assolutamente immobile, come in stato di trance. Con
semafori eretti, distesi, giubilanti, guizzando, solleticando, succhiando,
avvinghiandosi, avrebbe potuto fottere fino al soddisfacimento completo, fottere
finché anche l'ultima goccia di succo non si fosse esaurita.
Era
imperativo adesso non fare una mossa falsa, non perforare il velo sottile, che
ella stava ancora filando, come un baco da seta, intorno al proprio io nudo e
carnale. Attuare il trasferimento da dito a verga richiedeva la destrezza di un
ipnotizzatore. Il piacere mortale doveva essere intensificato con la massima
gradualità, come se si fosse trattato di un veleno al quale l'organismo poteva
assuefarsi soltanto a poco a poco. Bisognava fotterla attraverso il velo del
bozzolo, così come, anni prima, avevo dovuto violentarla attraverso la camicia
da notte, per poterla possedere... Un pensiero demoniaco mi balenò nella mente
mentre la mia verga guizzava con voluttà sotto le abili carezze di lei. Pensai a
Maude seduta in grembo al patrigno, nel crepuscolo, con la fessa incollata
all'abbottonatura dei suoi calzoni, come sempre; mi domandai quale sarebbe stata
l'espressione del viso di Maude se, improvvisamente avesse sentito la lucciola
di lui penetrarle nella potta sognante; se, mentre ella andava mormorandogli
all'orecchio perverse litanie di amore adolescente, ignara del fatto che il
vestito simile a garza non le copriva più le natiche carnose, quell'aggeggio
innominabile nascosto tra le gambe dell'uomo si fosse improvvisamente drizzato
salendo dentro di lei ed esplodendo come una pistola ad acqua.
La
guardai per vedere se potesse leggere nei miei pensieri, esplorandole intanto le
pieghe e le crepe della fessa infiammata con palpi audaci e aggressivi. Teneva
gli occhi strettamente chiusi, aveva le labbra semiaperte in modo lascivo; la
parte inferiore del suo corpo cominciò a dimenarsi e a contorcersi, quasi stesse
cercando di liberarsi da una rete. Con dolcezza le staccai la mano dalla verga,
sollevandole al contempo con cautela una gamba e passandola sopra di me. Per
qualche momento lasciai che il fallo saltasse e fremesse all'imboccatura della
fessa, lasciai che scivolasse dall'avanti all'indietro, e viceversa, quasi si
fosse trattato di un flessibile giocattolo di gomma. Un ritornello idiota andava
ripetendosi nella mia mente: «Com'è questo che tengo sulla tua testa... bello o
super-bello?» Continuai il giochetto per un intervallo di tempo provocante, di
quando in quando infilando il glande del pene per un paio di centimetri, poi
facendolo scorrere contro l'estremità della vulva e lasciando che si annidasse
nel vello rugiadoso. Tutto a un tratto ella ebbe un ansito e, con gli occhi
spalancati, si girò completamente su di me; equilibrata sulle mani e le
ginocchia, si sforzò freneticamente di afferrarmi la verga con la propria
viscida trappola. Le misi entrambe le mani intorno alle natiche, eseguii con le
dita un «glissando» lungo il margine interno della gonfia vulva e, aprendola
come si farebbe con una palla di gomma lacerata, piazzai la verga nel punto
vulnerabile e aspettai che ella vi premesse su con il proprio peso. Per un
momento credetti che avesse improvvisamente cambiato idea. Il capo di lei, che
fino a quel momento aveva ciondolato mollemente, mentre gli occhi seguivano
impotenti i movimenti frenetici della potta, si sollevò ora rigidamente, e il
suo sguardo si portò a un tratto su un punto sopra il mio capo. Un'espressione
di estremo piacere egoistico colmò quegli occhi spalancati e vaganti, e, mentre
ella cominciava a far ruotare il sedere, con l'asta penetrata soltanto a mezzo,
prese a mordersi il labbro inferiore. Mi spostai allora un pochino più in basso,
poi, premendola giù con tutta la mia forza, glielo cacciai dentro fino all'elsa,
tanto in profondità che lei si lasciò sfuggire un gemito e il capo le ricadde in
avanti sul guanciale. Proprio in questo momento, quando avrei potuto prendere
una carota e infilargliela, perché tanto sarebbe stato lo stesso, udimmo bussare
forte alla porta; ci spaventammo a tal punto tutti e due che per poco non ci si
fermò il cuore. Come sempre, fu lei a riprendersi per prima. Strappandosi da me,
corse alla porta.
«Chi
è?» domandò.
«Sono io», giunse la voce timida, tremula, che riconobbi immediatamente.
«Oh,
sei tu! Perché non lo hai detto subito? Che cosa c'è?»
«Volevo soltanto sapere», continuò la voce fioca e strascicata, con una lentezza
esasperante, «se Henry è lì.»
«Sì,
certo che è qui», scattò Maude, riavendosi dallo spavento. «Oh, Melanie»,
soggiunse, come se quest'ultima la stesse torturando, «non volevi sapere altro?
Non avresti potuto...?»
«C'è
una telefonata per Henry», disse l'anziana, povera Melanie. E poi, ancora più
adagio, come se quello fosse l'ultimo sforzo che riusciva a compiere: «Credo...
che sia... importante».
«Va
bene», gridai, alzandomi dal divano e abbottonandomi i calzoni. «Vengo subito!»
Fu
un colpo per me quando accostai il ricevitore all'orecchio. Era Curley che
telefonava dal palazzo degli scarafaggi. Non poteva spiegarmi che cos'era
accaduto, disse, ma dovevo tornare a casa al più presto possibile.
«Non
parlare in questo modo», lo esortai, «dimmi la verità. Che cosa è successo? Si
tratta di Mona?»
«Sì», fece lui, «ma tra poco si riprenderà.»
«Non
è morta, allora?»
«No,
ma ci è mancato poco. Sbrigati...» e, ciò detto, riattaccò.
Nel
corridoio mi imbattei in Melanie che, il seno scoperto a mezzo, zoppicava con
malinconica soddisfazione. Mi scoccò un'occhiata comprensiva, di compatimento,
di invidia e di rimprovero insieme.
«Non
l'avrei disturbata, sa», la sua voce strascicata parve salire a fatica fino a
me, «se non fosse stato importante. Santo cielo», e incominciò a trascinare il
proprio corpo verso le scale, «c'è tanto da fare. Quando si è giovani...» Non
aspettai che concludesse la frase. Corsi giù e finii quasi tra le braccia di
Maude.
«Che
cosa c'è?» mi domandò ansiosa. Poi, siccome non rispondevo immediatamente,
soggiunse: «È accaduto qualcosa... a... a lei?»
«Niente di grave, spero», dissi io, mentre annaspavo per prendere il cappotto e
il cappello.
«Devi andartene subito? Voglio dire...» V'era qualcosa di più dell'ansia nella
voce di Maude; un accenno di delusione, una punta appena percettibile di
disapprovazione.
«Non
ho acceso la luce», continuò, andando verso la lampada come per fare scattare
l'interruttore, «perché temevo che Melanie sarebbe potuta scendere con te.» Si
gingillò un poco con l'accappatoio, come per ricondurre i miei pensieri alla
cosa che le campeggiava nella mente.
A un
tratto mi resi conto che era crudele scappar via senza qualche manifestazione di
tenerezza.
«Devo proprio scappare», dissi, posando cappello e cappotto e portandomi rapido
al suo fianco. «Mi dispiace lasciarti proprio adesso... così», e, presale la
mano che stava per accendere la lampada, la trassi a me e l'abbracciai. Non
oppose alcuna resistenza. Anzi, reclinò il capo all'indietro e mi offrì le
labbra. Dopo un attimo avevo la lingua nella bocca di lei e il suo corpo,
infiacchito e caldo, stava premendo convulsamente contro il mio. («Sbrigati,
sbrigati!») ricordai le parole di Curley. «Farò alla svelta», dissi a me stesso,
senza preoccuparmi, adesso, se le mie mosse sarebbero state avventate o no.
Insinuai la mano sotto l'accappatoio e le affondai le dita nella fessa. Con mio
stupore ella cercò l'abbottonatura dei calzoni, l'aprì, ed estrasse la verga. La
feci indietreggiare contro il muro e lasciai che ponesse il mio bischero contro
la propria potta. Ardeva tutta, adesso, era conscia di ogni mio movimento,
deliberato e imperioso. Mi maneggiava il fallo come se fosse stato sua proprietà
privata.
Non
era facile cercare di metterglielo stando in piedi. «Sdraiamoci qui», bisbigliò
lei, cadendo in ginocchio e trascinando giù anche me.
«Ti
buscherai un raffreddore», dissi, mentre febbrilmente cercava di liberarsi
dell'accappatoio.
«Non
me ne importa», rispose, abbassandomi i calzoni e tirandomi con noncuranza su di
sé. «Oh, Dio», gemette, mordicchiandosi di nuovo le labbra e spremendomi i
testicoli mentre adagio inserivo l'asta. «Oh, Dio, dammelo... mettilo fino in
fondo!» e ansimò e gemette di piacere.
Non
volendo saltar su immediatamente e afferrare cappotto e cappello, le rimasi
addosso, con il bischero sempre in lei rigido come uno scovolo. Ella sembrava un
frutto maturo, dentro, e si sarebbe detto che la polpa respirasse. Ben presto,
sentii le due bandierine fluttuare; sembravano un fiore che oscillasse e la
carezza dei petali era allettante. Si muovevano incontrollabilmente, non a
sussulti violenti e convulsi, ma come bandierine di seta che reagissero a una
brezza. E poi fu come se, a un tratto, ella fosse riuscita a riprendere il
controllo; con le pareti della vagina iniziò all'interno una soffice spremitura
di limone, succhiando e stringendo a volontà, quasi che là dentro fosse
cresciuta una mano invisibile.
Giacendo assolutamente immobile, mi arresi a queste abili manipolazioni.
(«Sbrigati, sbrigati!» Ma ricordai anche con molta chiarezza, adesso, di avergli
sentito dire che Mona non era morta.) Avrei sempre potuto chiamare un tassì;
pochi minuti in più o in meno non avrebbero rivestito importanza. Nessuno poteva
mai immaginare che avessi tardato per questo.
(Afferra il piacere finché dura... Afferra il piacere...) Maude sapeva ormai che
non me ne sarei andato subito. Sapeva che avrebbe potuto protrarre la cosa
quanto le fosse piaciuto, specie giacendo immobile in quel modo, fottendo
soltanto con l'interno della vagina, fottendo con noncuranza.
Applicai la bocca sulla sua e cominciai a fottere con la lingua. Maude sapeva
fare le cose più stupefacenti con la lingua, cose che avevo dimenticato sapesse.
A volte me la infilava in gola, come per farmela inghiottire, poi la ritirava
provocante, per concentrarsi sulle sensazioni più in basso. A un certo momento
estrassi completamente la verga, per farle respirare una boccata d'aria, ma lei
l'afferrò avidamente e tornò a infilarla, spingendosi in avanti, in modo che
toccasse il fondo. La ritirai, poi, proprio sull'estremità della sua vulva, e,
come un cane dal naso umido, la fiutai con la punta del batacchio. Questo
giochetto fu troppo per lei; cominciò a venire, un orgasmo lungo, protratto, che
esplose morbidamente come una stella a cinque punte. Mi controllavo con un tal
sangue freddo che, mentre lei passava per i suoi spasmi, glielo manovrai dentro
come un demone, in su, di lato, giù, dentro, fuori di nuovo, affondando,
indietreggiando, calcando, sbuffando, e assolutamente certo che non sarei venuto
fino a quando non fossi stato perfettamente a punto e pronto, accidenti.
E a
questo punto ella fece qualcosa che non aveva mai fatto. Muovendosi con furioso
abbandono, mordendomi le labbra, la gola, le orecchie, ripetendo come un automa
impazzito: «Continua, dammelo, continua, dammelo, continua, oh Dio, dammelo,
dammelo!» passò da un orgasmo all'altro, spingendo, calcando, sollevandosi,
facendo ruotare il didietro, alzando le gambe e avvolgendomele intorno al collo,
gemendo, grugnendo, strillando come un porco, e poi a un tratto, completamente
spossata, supplicandomi di finire, supplicandomi di venire. «Vieni, vieni... o
impazzirò.» Mentre giaceva lì come un sacco d'avena, ansimando, sudando,
totalmente indifesa, totalmente esausta, adagio e con deliberazione continuai a
manovrare l'asta avanti e indietro, e quando mi fui goduto il lombo tritato, la
purea di patate, il sugo e tutte le spezie, le iniettai sull'imboccatura
dell'utero una dose che la fece sussultare come una scarica elettrica.
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