Tropico
dal
Capricorno, di Henry
Miller
Non la trovi spesso una fica che ammetta cose simili — voglio dire una fica
normale e non una deficiente. C’era per esempio Trix Miranda e sua sorella
signora Costello. Erano una bella coppia davvero. Trix, che andava col mio amico
MacGregor, voleva far credere a sua sorella — abitavano insieme — di non aver
mai avuto rapporti sessuali con MacGregor. E sua sorella voleva far credere
addirittura d’essere frigida, di non poter avere alcun rapporto con l’uomo,
anche volendo, perchè era “fatta troppo piccola”. E intanto il mio amico
MacGregor se le scopava, tutte e due, e loro sapevano l’una dell’altra ma
continuavano a far la parte, cosi. Perchè? Non l’ho mai scoperto. La Costello,
quella troia, era isterica: ogni volta che sentiva di non ricevere una giusta
percentuale delle chiavate offerte da MacGregor, si faceva venire un attacco
pseudoepilettico. E questo voleva dire buttarle asciugamani addosso, batterle i
polsi, aprirle il seno, strofinarle le gambe e alla fine issarla su a letto,
dove la prendeva in cura MacGregor, appena messa a dormire l’altra. A volte le
due sorelle si stendevano accanto, per il sonnellino pomeridiano; se in casa
c’era MacGregor, andava su e si metteva a giacere in mezzo. Mi spiegò il
trucchetto, ridendo: lui faceva finta di dormire, stava li a giacere col fiato
grosso, apriva ora un occhio, ora l’altro, per vedere quale delle due
sonnecchiava davvero. Appena aveva capito qual era quella addormentata attaccava
con l’altra. In questi casi pare che preferisse l’isterica, la signora Costello,
il cui marito la veniva a trovare ogni sei mesi. Maggiore il rischio, mi spiegò,
maggiore il divertimento. Se era con l’altra sorella, Trix — che corteggiava in
teoria — doveva dire che sarebbe stato un guaio se l’altra li avesse sorpresi
così, e al tempo stesso — me lo ammise — sperava sempre che l’altra si
svegliasse cogliendoli sul fatto. Ma la sorella sposata, quella che era “fatta
troppo stretta”, diceva, era scaltra e poi si sentiva in colpa verso la sorella
e se mai sua sorella l’avesse colta sul fatto, lei magari avrebbe finto di avere
un attacco e perciò di non sapere cosa stesse facendo. Niente l’avrebbe indotta
ad ammettere che la verità si concedeva il piacere di farsi chiavare da un uomo.
La conoscevo benissimo perchè per qualche tempo le diedi lezione, e perbacco
facevo dei mio meglio per costringerla ad ammettere di avere una fica normale, e
che una bella chiavata se la sarebbe goduta, concedendosela di tanto in tanto.
Le raccontavo storie pazzesche, che poi erano storie sue vere, appena camuffate,
e lei tuttavia restava inflessibile. L’avevo quasi portata al punto, un giorno —
e questo supera tutto il resto — di farmi lasciar mettere un dito dentro. Ero
sicuro di avercela fatta. E vero che era secca e un po’ stretta, ma io
t’attribuivo all’isteria. Ma immaginatevi di arrivare a tal punto con una fica e
che poi lei vi dica in faccia, tirando giù a forza il vestito: «Lo vedi, te lo
avevo detto che son fatta male!». «Non ho visto niente del genere» feci io
arrabbiato. «Cosa pretendi che faccia: che ti esamini al microscopio?»
“Questa si che mi piace» disse lei fingendo di inalberarsi. «E questo il modo di
parlarmi?»
«Lo sai benissimo che menti» continuai. «Perchè dici le bugie? Non credi che sia
umano aver la fica e adoperarla di tanto in tanto? Vuoi che ti si secchi?»
«Che linguaggio!» disse, mordendosi il labbro di sotto e arrossendo come una
barbabietola. «Avevo creduto che tu fossi un vero signore.»
«Be’, allora tu non sei una vera signora» ribattei, «perchè anche una vera
signora si permette una chiavata, di tanto in tanto, e poi le vere signore non
chiedono ai veri signori di ficcargli un dito dentro per vedere come son
strette.»
«Io non ti ho mai chiesto di toccarmi» disse. «Mai passato per il capo di
chiederti di mettermi le mani addosso, o almeno sulle mie parti intime.»
«E magari pensavi che ti volevo pulire le orecchie, no?»
«In quel momento ti consideravo come un medico, solo questo ti posso dite» fece,
rigida, perchè voleva diacciarmi.
«Senti» dissi io, deciso a correre il rischio, «mettiamo pure che sia stato
tutto uno sbaglio, che non sia successo nulla, proprio nulla. Ti conosco troppo
bene per pensare di insultarti cosi. Nemmeno mi passerebbe per il capo di farti
una cosa simile, a te... no, che mi venga un accidente. Solo mi chiedevo se per
caso tu avessi torto a dire in quel modo, che forse non sei fatta troppo
piccola. Sai, è successo cosi in fretta che non saprei dire cosa ho provato. Non
mi pare nemmeno di averti messo un dito dentro. Devo aver toccato solo di fuori
— questo solo. Senti, stenditi qui sul divano... siamo amici.» La tirai giù
accanto a me — si squagliava palesemente — e le misi un braccio alla vita, come
per consolarla affettuosamente. «E sempre stato cosi?» chiesi con aria
innocente, e subito dopo quasi mi mettevo a ridere, pensando che domanda stupida
era quella. Nascose la testa con falso pudore come se avessi accennato a una
tragedia indicibile. «Senti, se magari ti siedi in grembo. E piano piano me la
tirai in grembo e al tempo stesso le infilavo pian piano la mano sotto il
vestito e la posai leggermente sul ginocchio... “forse se stai un momento cosi
ti senti meglio… ecco; così, lasciati andare fra le mie braccia... non ti senti
meglio?» Lei non rispose, ma nemmeno fece resistenza; stava lì a corpo morto,
con gli occhi chiusi. A poco a poco, piano piano, dolce dolce, salii con la mano
su per la gamba, e intanto le parlavo a voce plana, suadente. Quando le misi le
dita sull’inguine e le aprii le piccole labbra era bagnata come lo straccio
della rigovernatura. Gliela massaggiavo pian piano, aprendola sempre di più, e
intanto le propinavo per telepatia la storiella delle donne che a volte si
sbagliano sul proprio conto, e credono di avercela stretta mentre invece son
normalissime, e più andavo avanti, più lei si bagnava e più si apriva. Adesso
le tenevo quattro dita dentro e c’era spazio per altre ancora, se ne avessi
avute. Aveva una fica enorme. ed era stata calibrata a dovere, lo sentii. La
guardai per vedere sa ancora teneva gli occhi chiusi. La bocca l’aveva aperta e
ansimava, ma gli occhi eran serrati, come se volesse far credere a se stessa che
era tutto un sogno. Ora la potevo anche maneggiare con forza, senza rischio
della minima protesta. E forse con un po’ di cattiveria, la brancicavo oltre il
necessario, giusto per vedere cosa sarebbe successo. Era molle come un cuscino
di piume e anche quando batté la testa nel bracciolo del divano, non mostrò
alcun segno di irritazione. Era come se si fosse anestetizzata per una scopata
gratuita. Le levai tutti i vestiti e li buttai sul pavimento, e dopo essermela
lavorata un poco sul divano, lo tirai fuori e la stesi sul pavimento, sulle sue
vesti- e poi ce lo rimisi, e lei lo teneva stretto con quella valvola succhiante
che sapeva adoperare tanto bene, nonostante i sintomi esteriori del coma.
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