“TROPICO
DEL CAPRICORNO”,
di Henry Miller
Uno dei motivi per cui non arrivai mai a niente con quella maledetta musica che
era sempre immischiata col sesso. Appena fui capace di suonare una canzone,
subito le fiche mi si affollarono intorno come mosche. Per cominciare, fu in
gran parte colpa di Lola. Lola fu la mia prima maestra di piano. Lola Niessen.
Era un nome ridicolo e tipico dei quartiere dove abitavamo allora. Faceva
pensare a un’aringa puzzolente o a una fica verminosa. A dire il vero, Lola non
era proprio una bellezza. Assomigliava piuttosto a un calmucco o a un muso
giallo, col colorito terreo e lo sguardo bilioso. Aveva natte e verruche, per
non dir nulla dei baffi. Ma mi eccitava tuttavia la sua pelosità; aveva bei
capelli neri e lunghi e se ti acconciava a crocchie ascendenti e discendenti sul
cranio mongoloide. Alla nuca se li arriciava in un nodo serpentino. Arrivava
sempre in ritardo, essendo un’idiota coscienziosa, e quando arrivava io ero
sempre un po’ snervato dalle masturbazioni. Ma appena mi si metteva a sedere
accanto io mi rieccitavo subito, tra l’altro per il profumo nauseante con cui si
marinava te ascelle. D’estate portava te maniche larghe e io le vedevo ciuffi di
pelo sotto te braccia. Quella vista mi faceva impazzire. Immaginavo che avesse
pelo dappertutto, anche sull’ombelico. E io volevo rotolarmici sopra, ficcarci i
denti. Avrei mangiato il pelo di Lola, come una ghiottoneria, purchè ci fosse
stato un pezzo di carne attaccato. In ogni modo era pelosa, questo volevo dire,
ed essendo pelosa come un gorilla mi distraeva la mente dalla musica per
dirigerla verso la fica. Avevo una voglia cosi maledetta di vederle la fica che
un giorno pagai il suo fratellino perchè mi lasciasse dare un’occhiata mentre
era nel bagno. Fu anche più meraviglioso di come m’ero immaginato: un vello che
andava dall’inguine all’ombelico, un ciuffo enorme e folte, uno sporran
scozzese, ricco come un tappeto tessuto a mano. La volta dopo che venne per la
lezione io mi lasciai aperti un paio di bottoni dei calzoni. Non parve
accorgersi di niente. La volta dopo me li lasciai tutti sbottonati. E questa
volta se ne avvide. Disse: «Henry, mi pare che tu abbia scordato qualcosa». Io
la guardai, rosso come una barbabietola, e tranquillamente le chiesi cosa. Lei
fece finta di guardare da un’altra parte e intanto me lo indicava con la mano
sinistra. La mano era così vicina che io non resistetti alla tentazione di
afferrarla e di spingerla fra i bottoni. Si alzò di botto, con il viso pallido e
impaurito. A questo punto il cazzo mio era uscito dai calzoni e vibrava di
gioia. Glielo accostai e intanto ficcavo te mani sotto le vesti per raggiungere
quel tappeto tessuto a mano che avevo già visto dal buco della serratura.
All’improvviso ricevetti uno schiuffo sull’orecchio, e poi un altro, e poi mi
prese per l’orecchio e mi tirò nell’angolo, mi volse la faccia al muro e disse:
«Ora abbottonati i calzoni, stupido!>. Pochi momenti dopo tornammo al piano —
ancora Czerny e gli esercizi di velocità. Non distinguevo più un diesis da un
bemolle, ma continuavo a suonare, per la paura che lei raccontasse l’accaduto a
mia madre. Per fortuna non son cose facili a raccontare a una madre.
Questo fatto, imbarazzante com’era, segnò un netto mutamento nei nostri
rapporti. Pensavo che la prossima volta, tornando, sarebbe stata severa con me,
invece si era messa in ghingheri, si era data più profumo di sempre, e fu anche
un po’allegra, cosa insolita per Lola perchè era un tipo tetro e introflesso.
Non osavo sbottonarmi i calzoni un’altra volta, ma mi venne un’erezione e mi
durò per tutta la lezione, e a lei dev’essere piaciuto perchè dava sempre
occhiate furtive di sbieco in quella direzione. Avevo appena quindici anni, e
lei doveva essere almeno sui venticinque, ventotto. Difficile per me sapere che
fare, a meno di sbatterla deliberatamente per terra un giorno che mia madre
fosse fuori. Per qualche tempo la pedinai a sera quando usciva sola. A sera
infatti aveva l’abitudine di far lunghe passeggiate da sola. Io sorvegliavo i
suoi passi, sperando che arrivasse in qualche posto deserto presso il cimitero
dove avrei potuto tentare di affrontarla bruscamente. A volte avevo
l’impressione che lei sapesse che la stavo seguendo e che la cosa le piacesse.
Forse lei aspettava che io le saltassi addosso. Forse voleva proprio questo.
Comunque una sera m’ero disteso sull’erba presso i binari della ferrovia: era
una afosa notte d’estate e la gente si buttava per terra un pò dappertutto,
ansimando come cani. Non pensavo affatto a Lola, stavo li senza far nulla,
faceva troppo caldo per pensare a qualcosa. All’improvviso vedo una donna che
arriva dallo stradello. Io sto li stravaccato sull’argine e non vedo nessuno
intorno. La donna avanza lentamente, a testa bassa, come in sogno. «Lola!»
chiamo. Par davvero stupita di vedermi. «Ma cosa fai qui?» dice, e si mette
seduta accanto a me sull’argine. Io non te risposi, non dissi una parola — te
strisciai addosso e la stesi a terra. «Qui no, prego» implorava, ma non le
badai. Le misi una mano fra te gambe, tutta impigliata nel suo folto sporran.
Lei era tutta bagnata come un cavallo che sbava. Fu la mia prima chiavata,
Cristo, e guarda un po’ arriva un treno che ci inondò di faville. Lola ne fu
atterrita. Era la prima chiavata anche per lei, immagino, e forse ne aveva anche
più bisogno di me, ma quando sentì le faville si volle liberare. Era come tener
ferma una cavalla selvatica. Non riuscivo a tenerla già, per quanti sforzi
facessi. Si alzò, si accomodò le vesti, rimise a posto il ciuffo sulla nuca.
«Devi andare a casa» dice. «A casa non ci vado» dico, e intanto la prendo per un
braccio e ci mettemmo a passeggiare. Camminammo vicini per un po’ in silenzio
assoluto. Nessuno di noi due badava dove si andava. Alta fine fummo sullo
stradone e sopra di noi c’erano le cisterne e vicino alle cisterne uno stagno.
D’istinto, mi ci diressi. Dovemmo passare sotto i rami di certi alberi bassi.
Aiutavo Lola a chinarsi, quando all’improvviso lei scivolò, tirandomi dietro.
Non fece cenno di rialzarsi; anzi mi prese e mi strinse a sé, e con
mio grande stupore sentii che mi ficcava la mano nei calzoni. Fu una carezza
cosi meravigliosa che in un batter d’occhio le venni in mano. Poi mi prese la
mano e se la mise fra le gambe. Si lasciò andare completamente abbandonata, e
aprì le gambe. Io mi chinai su di lei e le baciai tutti i peli della fica; le
misi la lingua nell’ombelico e glielo leccai ben bene. Poi mi stesi con la testa
fra le sue gambe, lappando la bava che le usciva di corpo. Adesso gemeva e si
aggrappava con le mani; i capelli le si erano disfatti, le si erano sparsi
sull’addome nudo. Insomma glielo rimisi dentro e ce lo tenni a lungo, e di
questo mi avrebbe dovuto essere maledettamente grata, perchè non so quante volte
venne — era come un grappolo di mortaretti che scoppiano, e insieme mi mordeva,
mi segnava le labbra, mi graffiava, mi strappò la camicia e il diavolo sa
cos’altro. Ero marcato come un toro quando arrivai a casa e mi guardai alto
specchio.
Fu meraviglioso finché durò, ma non durò molto. Un mese dopo i Niessen si
trasferirono in un’altra città e non rividi più Lola. Ma appesi il suo
sporran a capo del letto e tutte te sere gli dicevo la preghiera. E ogni
volta che riattaccavo Czerny mi veniva un’erezione, pensando a Lola distesa
sull’erba, pensando ai suoi lunghi capelli neri, al ciuffo sulla nuca, ai
lamenti che mandava e al sugo che le usciva di corpo.
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